Diversità e inclusione – Le Django Girls rispondono
Eccoci di nuovo con le Django Girls: Ambra, Sabrina e Fiorella.
Il podcast che abbiamo registrato (e l’articolo che ne è uscito) è stato sicuramente uno dei più ascoltati, uno dei più interessanti, ma anche uno dei più discussi.
E quindi abbiamo deciso di registrare un’altra puntata con loro, facendo anche qualche domanda un po’ scomoda, e tirarne fuori un secondo articolo.
Ospite d’eccezione, Matteo Benci, che farà qualche domanda da avvocato del diavolo.
Alessia: Partiamo subito. Fiorella, perchè ti ritieni qualificata per rispondere a domande su dei temi così controversi e delicati come sono la diversity e l’inclusion?
Fiorella: Allora, diciamo che non mi sento qualificata, non sono un’esperta, sono una ragazza che ha vissuto in prima persona alcune situazioni, che è riuscita a confrontarsi con un sacco di donne in questi ultimi anni, che è riuscita a prendere anche dei vissuti da altre donne in questo settore e che si informa sempre. Quindi ne parlo perché le ho vissute in prima persona e poi ho riscontrato questo problema in altre donne, quindi vorrei aiutare loro – e anche altri – a comprendere meglio queste tematiche.
Alessia: Grazie Fiorella. Ambra, adesso passo a te la parola: quale pensi che sia l’aspetto più difficile da gestire in un ambiente che considereresti inclusion, equality e diversity approved?
Ambra: L’aspetto più difficile da gestire in qualsiasi tipo di ambiente, community o contesto nei quali si valorizzano l’inclusion, la diversity e l’equity è quello relazionale, anzi no, quello comunicativo. Perché? Perché è un fattore molto importante, ma se viene usato in modo improprio o equivocabile, può causare molti danni. Le persone sono sensibili e quindi è facile attribuire a una parola un significato che non si voleva minimamente dare e quindi capire un po’, come si dice dalle mie parti, pan per polenta! 🙂
Ti aggiungo solo un’ultima cosa: indirettamente sono andata a parlare anche di un altro aspetto molto difficile che è quello emotivo. In un contesto in cui si sanciscono la diversity e l’inclusion è fondamentale cercare di non fare del male a un livello emotivo alle persone perché devono essere libere di esprimere se stesse.
Alessia: A proposito di sensibilità, mi aggancio con una domanda al volo.
Ma le sensibilità sono talmente diverse che non offendere quasi nessuno è un po’ difficile, e anche chi parla a volte potrebbe sentirsi “leso nei suoi diritti” perché non può esprimersi liberamente. Come si fa a bilanciare la sensibilità delle persone al diritto di parlare? E come si fa a non offendere mai nessuno? Quello che secondo te è un’offesa per me magari non lo è, come faccio a rendermi conto di quando ti stai offendendo? Prendiamo un esempio recente nel nostro mondo: le tecnologie slave e master. Sono sempre state chiamate così, e poi vien fuori che non vanno più usate queste terminologie perché tremendamente offensive. Ma io non credo che chi normalmente usa l’espressione “tecnologia slave” voglia dare luogo a una discriminazione razziale, probabilmente non ci fa nemmeno caso o nemmeno pensa a una possibile origine discriminatoria del termine. La stessa parola, in fondo, ha un significato diverso a seconda del modo in cui la si usa. Se io mangio un finocchio è un ortaggio, se lo dice una persona a un’altra ovviamente è un’offesa. Tanti dicono che in realtà è come la vuoi intendere quella parola, non la parola in sé che è offensiva. Come rispondete?
Ambra: Secondo me è importante cercare di mettersi nei panni degli altri, quindi io nel momento in cui esprimo il mio punto di vista dico “Ok io parlo così, ma se fossi la persona con cui io mi interfaccio, cosa vorrei sentirmi dire? Anzi, cosa non vorrei sentirmi dire?”. Quindi, quando mi relaziono con le persone, cerco di essere sensibile e diplomatica. Secondo me la diplomazia è fondamentale al giorno di oggi, ma soprattutto devo cercare di pormi nei panni dell’altra persona. È difficile, lo so, però è una cosa su cui ci dovremmo tutti un po’ sforzare.
Alessia: Grazie Ambra, continuiamo con un’altra domanda. Fiorella, tu ti sei mai trovata a gestire veramente, nella tua realtà lavorativa, un problema legato alla mancanza di sensibilità culturale, al sessismo, alla discriminazione religiosa o razziale? E come lo ha gestito?
Fiorella: Per fortuna, nella realtà aziendale dove lavoro adesso no, ma c’è stata un’altra realtà aziendale dove ho vissuto in un ambiente non sanissimo. Era la mia prima esperienza lavorativa dopo l’università, mi sono trovata in un contesto con persone molto grandi rispetto a me ed erano anche tutti uomini; non erano ancora quegli anni in cui si era attenti alla diversity ed inclusion, e nemmeno se ne parlava. Sono entrata da sviluppatrice e c’erano sempre delle battute sessiste, a cui magari non si pensa quando si è tra colleghi, magari si fanno senza cattiveria, però quando c’è anche una ragazza sarebbe giusto farla sentire a proprio agio ed evitarle. E poi la mia parola valeva sempre meno di quella di un collega uomo, e questo è qualcosa che sto riscontrando anche adesso nella realtà IT, non all’interno della mia azienda, ma a volte avendo a che fare con i clienti. Vedo che fanno riferimento più a un mio collega uomo. Però devo dire che lì ci sono anche i miei colleghi che mi aiutano, perché giustamente dicono: “La mia collega già ti ha spiegato tutto, non devo dirti nulla”. Quindi credo che sia fondamentale l’aiuto delle persone che ci sono intorno per far capire a queste altre persone che – magari inconsapevolmente – stanno mettendo in atto delle discriminazioni. Altri casi mi sono successi, invece, in conferenze. Ti racconto un episodio che a me fa ridere tantissimo: ero a una conferenza, ero l’unica donna del tavolo e stavamo mangiando tranquillamente. Stavamo parlando del più e del meno e c’era un signore che aveva cominciato a chiedere a tutto il resto del tavolo cosa facevano in azienda, quali erano le loro mansioni e quali linguaggi usavano. A tutti tranne che a me. Ha fatto il giro del tavolo, ignorandomi completamente, forse pensando che non ero una tecnica. L’unica domanda che mi ha fatto in tutto il pranzo è stata quando è arrivato il dolce e mi ha chiesto: “Come si fa questo dolce?”. Io ero completamente spiazzata. Per fortuna queste cose le prendo sempre a ridere e gli ho risposto dicendo che non lo sapevo – e non lo so davvero – ma anche gli altri commensali del tavolo si sono tutti guardati tra di loro, visibilmente a disagio. Purtroppo queste situazioni ci sono, per fortuna me ne sono capitate poche e sono una persona che la prende a ridere, ma anche che sa rispondere. Però mi metto nei panni di alcune donne che magari non sono molto sicure di sé, e quindi magari non danno potere alle loro parole e alle loro emozioni. Quindi noi parliamo di questi argomenti anche per dare parola e per incoraggiare queste donne a prendere una posizione.
Matteo: Io vorrei fare una domanda che collega un po’ le ultime risposte che hanno dato Fiorella e Ambra. Ambra ha detto che è importante rispettare anche la sensibilità degli altri e cercare di mettersi nei panni del prossimo e sono d’accordissimo;
Fiorella ha sottolineato come spesso questi episodi capitino in maniera “inconscia”, cioè probabilmente le persone non ci pensano neanche quando fanno certi “errori” o incappano in certe situazioni. Quindi la mia domanda è: se noi lasciamo alle persone decidere come rapportarsi con la sensibilità del prossimo non rischiamo che in realtà queste persone non si pongano proprio il problema? Probabilmente, certe cose succedono perché queste persone non pensano che sia un problema quello che stanno facendo, altrimenti forse ci rifletterebbero un attimo. Quindi non dovrebbe esserci forse anche una informazione di terze parti – che esula dalla decisione personale – sul fatto che una cosa possa o meno essere il caso di essere detta in un certo modo o in un certo ambito?
Ambra: Assolutamente, sono d’accordo con te. Sono dell’opinione che bisogna parlarne e la comunicazione infatti è molto importante; bisogna rendere le persone consapevoli di questo problema e fare divulgazione, del tipo: “Ma ti rendi conto che se parli così o usi questo tono, magari l’altra persona ci può rimanere male?”
Fiorella: Io volevo aggiungere soltanto una cosa a quello che ha detto Ambra. Sono d’accordo con lei che bisogna immedesimarsi nelle altre persone, però è qualcosa che fanno persone già di per sé un po’ più sensibili, e che già conoscono queste tematiche.
Credo che sia importantissimo fare informazione a partire dalle scuole, ma anche nelle aziende. E avere dei codici di condotta perché non tutti si pongono questi problemi, alcune persone pensano che non ci sia nessun problema a esprimere le proprie idee senza pensare agli altri. Quindi sì alla sensibilizzazione, all’informazione e alla comunicazione, ma sì anche a delle regole, soprattutto quando si sta in una community che condivide una passione o un lavoro.
Matteo: Vi è mai capitato che a questa risposta – che condivido chiaramente – fosse data una nuova risposta: ma io non voglio offendere usando quella parola, è un dato di fatto? Perché se quella persona è omosessuale e io la chiamo omosessuale, si deve offendere, se è un dato di fatto? Se quella persona ha la pelle nera e io la chiamo nero perché si deve offendere? Come rispondete a questa osservazione?
Fiorella: Secondo me è banale come risposta ed è un ottimo modo per tirarsi indietro da una risposta sincera, perché al giorno d’oggi sappiamo benissimo come usare le parole e il significato di esse, quindi ci costa pochissimo sforzo usarle nella maniera giusta. Secondo me, quando una persona dice che non intendeva in maniera sbagliata l’uso di quella parola perché è un dato di fatto, io le direi: “Chi ti dice che è un dato di fatto e che la persona a cui ti rivolgi non si offenda? Perché pensi che sia giusto?”. Ecco, forse dobbiamo cominciare, oltre a utilizzare le parole in maniera giusta, anche a provare a capire perché potremmo offendere l’altra persona, perché a volte non ci poniamo questo problema, parliamo tanto per parlare, ma forse prima di parlare potremmo pensare due secondi a come potrebbe prenderla l’altra persona.
Sabrina: Secondo me, le persone dovrebbero imparare anche a porsi nei confronti dell’altro alla pari e all’ascolto, perché una cosa che posso dare per scontata io, di cui posso non essere consapevole, non posso dare per scontato che non lo sia per l’altra persona. Questo aspetto è importante che venga portato anche nelle scuole, che si insegni agli studenti già dalle fasce inferiori ad ascoltare l’altro. Questo può sicuramente portare un cambiamento anche nel livello comunicativo.
Alessia. Scusate, a volte però si scade anche un po’ nel ridicolo. Leggevo che, per esempio, basso di statura in inglese si dice “vertically challenged”, cioè sfidato verticalmente. Mi pare un po’ assurdo, io mi sentirei più presa in giro ad essere definita vertically challenged che non bassa. A chi pone questo tipo di obiezione, che cosa rispondete?
Fiorella: Mah, facile dirlo, facilissimo, ma non l’ho mai capita questa cosa di cadere nel ridicolo, perché la nostra società si è sempre basata sul lavoro. Adesso stiamo affrontando – parlo tecnicamente – una trasformazione digitale, una trasformazione che si chiama 4.0, in cui si sta dando valore alle emozioni, alla persona, e quindi invece di dire che stiamo cadendo nel ridicolo – perché alcune persone lo possono pensare – dobbiamo capire che c’è questa trasformazione in atto. Se non incominciamo a dare valore alle persone, a dare peso alle parole e alla comunicazione, a un certo punto non ci sarà più spazio per dire che stiamo cadendo nel ridicolo e nel banale. È una trasformazione che avverrà piano piano, le persone dovranno formarsi e credo che, formandosi anche su questi nuovi argomenti, le opinioni di molti cambieranno e qui magari si capirà l’esigenza di usare le parole in maniera diversa, ma anche più giusta.
Alessia: “Sabrina, pensi che in qualche modo la diversity abbia influenzato la tua carriera?”
Sabrina: Allora, influenzato in parte sì in parte no. Se si intende se, in quanto donna, sia stata mai discriminata sul posto di lavoro, posso dire di essere stata fortunata e che non mi è mai successo, anzi tutto il contrario. Sicuramente l’ha influenzata nel senso che è un valore che mi ha sempre accompagnato. Sono sempre stata cresciuta con i valori dell’uguaglianza, della diversità, di conoscere il diverso e di ascoltare chiunque, perché può portare sicuramente un valore aggiunto, che ti arricchisce, e questo l’ho trovato poi anche nel posto di lavoro. Ogni giorno mi trovo a collaborare con colleghi diversi da me, che mi insegnano sempre nuove cose, io prendo da loro e mi piace pensare che anche loro prendano da me. Lavorando in ambito tecnologico, e anche in ambito di community, la diversità è un elemento che ricorre sempre. Ho incontrato persone di provenienza culturale e orientamenti sessuali diversi, di cui ho potuto conoscere l’esperienza e di cui ho potuto fare bagaglio, e quindi diciamo che l’ha influenzata in questo senso.
Alessia: Qual è la vostra definizione di diversità, equità e di inclusione? Pensate che il movimento femminista moderno sia coerente con queste necessità di cui si parla tutti i giorni?
Ambra: Per quanto riguarda la mia definizione di diversità, inclusione ed equità, avendo studiato diritto, io parto sempre dal principio che viene sancito dalla Costituzione che è quello dell’uguaglianza, ovvero siamo tutti uguali di fronte alla legge e abbiamo tutti gli stessi diritti. Però, allo stesso modo, ognuno di noi ha dei caratteri e delle qualità che lo contraddistinguono, e che ha il diritto di manifestare, perché proprio quelle diversità ci contraddistinguono. E poi sai che noia se fossimo tutti uguali!
Sabrina: Secondo me, il movimento femminista è coerente con le necessità che ci sono al giorno d’oggi e uno dei meriti che gli possiamo riconoscere è di portare ogni giorno all’attenzione questi temi. Si parla tanto di donne che non sono rappresentate a livello di leadership nelle sfere pubbliche e private, si parla di linguaggio perché è un tema femminista anche questo. Credo che il merito sia appunto di parlare di queste tematiche e, soprattutto, c’è un grande attivismo che viene portato sui social, in particolare su Instagram. Ci sono tante attiviste su quel canale e secondo me è molto importante perché fa conoscere questi temi e crea consapevolezza anche nelle fasce più giovani.
Alessia: Visto che parliamo di battaglie femministe, continuiamo con un argomento che spesso divide: le quote rosa. Tanti dicono che le quote rosa rischiano di privilegiare donne meno competenti a discapito di uomini più competenti. Voi che ne pensate?
Sabrina: Io penso che di base nessuna donna vorrebbe essere scelta per una carica o per un lavoro soltanto per il suo il suo genere, in quanto donna, ma vorrebbe essere scelta giustamente per le sue qualità e per i suoi meriti, e questo è un dato di fatto. C’è da dire, però, che – dati alla mano – ci sono tanti settori in cui c’è un forte squilibrio di genere e le donne non sono ugualmente rappresentate. Le quote rosa, secondo me, devono essere viste come uno strumento, un acceleratore per migliorare la situazione. Tanti report usciti ultimamente riportano dati che dimostrano come, ad esempio in Italia, la rappresentanza femminile in Parlamento sia migliorata e questo lo si deve fondamentalmente alle quote rosa; quindi mi chiedo: se non ci fossero state, come sarebbe stata la situazione? È importante che ci siano proprio perché la stessa politica dovrebbe dare l’esempio e farsi promotrice di un cambiamento di mentalità, che poi potrà riflettersi anche in altri settori. Quindi sì, è vero il discorso della meritocrazia da una parte, però è anche vero che devono essere viste semplicemente come uno strumento utile a cambiare la mentalità e migliorare la situazione.
Matteo: Volevo fare una domanda riguardo al femminismo.
Premesso che a volte non tutte le persone che parlano di femminismo e che rispondono a temi di femminismo, sanno che cosa significhi davvero femminismo, perché secondo voi ci sono così pochi uomini che supportano o affrontano queste tematiche e sono quasi tutte donne?
Sabrina: Questo infatti secondo me è un problema del movimento. Affinché ci sia veramente un cambiamento, secondo me dovrebbero essere coinvolti e fatti parte della causa sempre più uomini, e non so perché questo non avviene. Forse potrebbe essere dovuto al modello sociale che ci accompagna un po’ da sempre, cioè il modello patriarcale, dove donne e uomini hanno avuto sempre ruoli ben definiti, con la donna legata ai ruoli di cura e l’uomo focalizzato sul lavoro. Forse rinunciare a certi privilegi non è sempre facile.
Fiorella: Il movimento femminista è sempre stato legato a qualcosa di negativo perché ancora oggi forse non si capiscono quali sono gli scopi e perché c’è questo movimento. Devo dire che ultimamente sta cambiando, ho visto molti uomini che partecipano attivamente, che ci mettono la faccia, che ne parlano e che portano anche loro un miglioramento, perché poi ognuno porta qualcosa di nuovo e una visione diversa, ed è giusto anche confrontarci con l’altro sesso. Io credo che ci sia questo cambiamento perché stiamo cominciando a parlare di queste tematiche, c’è più sensibilizzazione, ma soprattutto non c’è più la paura di esprimere le proprie idee e i propri sentimenti, perché a volte magari un uomo si sente anche difficoltà a esprimere le proprie emozioni davanti a delle persone, magari ha più difficoltà rispetto a una donna. La cosa che mi fa piacere è vedere questo cambiamento e questa partecipazione sia da parte anche maschile, sia da parte di altri generi.
Alessia: Ma non vi sembra che a volte forse il movimento femminista porti un po’ una sclerotizzazione dei ruoli, cioè pensi più a mettere “i maschi contro le femmine” che a rivendicare diritti? Dall’esterno, pare più una lotta contro la figura maschile in sé, mentre alla fine dovremmo capire che dovremmo aiutarci e collaborare? Non c’è questo rischio?
Fiorella: Quello dipende dalle persone, come tutte le cose, bisogna avere un equilibrio. Poi sì, ho visto alcune donne femministe che magari lo fanno per combattere un po’ l’idea dell’uomo, però bisogna essere anche noi intelligenti a capire. Perché il movimento femminista non vuole avere il potere sugli uomini, vuole soltanto la parità di genere, la parità di salario, la parità di competenze, perché si parla di quote rosa – mi rifaccio a prima – come qualcosa di negativo, ma non è qualcosa di negativo, è uno strumento per raggiungere la parità. Nel momento in cui raggiungeremo una varietà e anche le altre persone e le aziende verranno sensibilizzate, non ci sarà più bisogno di quote rosa, quindi è solo uno strumento.
Ambra: Alla fine, si torna sempre sul fatto di mettersi nei panni delle altre persone. Come dice Fiorella, per fortuna le cose stanno cambiando, ma magari inizialmente gli uomini erano contro il movimento femminista perché forse non si erano mai trovati nelle situazioni vissute dalle donne. Ora, grazie al fatto che c’è più comunicazione tra uomo e donna, anche loro si rendono conto di certe situazioni che accadono tutti i giorni e proprio per questo si rendono disponibili e danno il loro supporto alle donne.
Alessia: Voi avete qualche dato interessante su quest’ultimo periodo dominato dalla pandemia COVID? Che cosa è cambiato?
Fiorella: Sì, certo. Ogni anno viene pubblicato dall’European Institute for Gender Equality, il report sul gender equality index: uno strumento che misura il progresso sull’uguaglianza di genere in Europa, indaga sei ambiti principali e prende in esame i 28 paesi dell’UE. Io vorrei parlare principalmente di quello che avviene in Italia, soprattutto nell’ambito tecnologico, che è il nostro. Parliamo un po’ di dati anche perché questa è la ragione per cui parliamo di diversity ed inclusion. Questi dati ci raccontano un’Italia ancora predominata dalla disparità e dalla disuguaglianza di genere, sia nell’ambito lavorativo ma anche nell’ambito privato, e il report di quest’anno si è concentrato sulla digitalizzazione e sugli effetti che ha generato nel mondo del lavoro tra donne e uomini. Soprattutto in questi mesi di pandemia, abbiamo visto un’esponenziale crescita della digitalizzazione, ma pochi si sono invece concentrati sul capire e misurare l’impatto che questo fenomeno ha generato. Possiamo vedere che in Italia, in media, solo il 21% delle donne ha accesso e/o sviluppa competenze digitali di base rispetto al 30% degli uomini e, se ci spostiamo invece nel nostro ambito ICT, il divario è ancora più decisivo se consideriamo che la presenza femminile è soltanto del 15% rispetto all’85% di quella maschile. Ci tengo particolarmente a sottolineare che, a parità di ruolo e di competenze, esiste un gender pay gap, quindi una differenza di salario, del 15% nel settore ICT, mentre nelle altre posizioni siamo al 6%. Questi dati raccontano come, in Italia, la necessità di rendere sempre più inclusivo il mondo del digital e del tech è ancora molto alta, e solo grazie alla sensibilizzazione, alla formazione e a più opportunità per avvicinare le donne a questo mondo, riusciremo a raggiungere dei risultati, perché c’è ancora molta distanza tra l’uomo e la donna.
Che cosa è successo poi con il COVID? La situazione ha avuto degli aspetti positivi, se così si può dire, e degli aspetti negativi. Di positivo c’è stato che ha permesso a molte donne di lavorare da casa, e quindi di conciliare un po’ il lavoro familiare con il lavoro vero e proprio, e quindi anche la cura dei bambini, ma anche perché erano supportate dai mariti, che anche loro lavoravano da casa: questo può essere sia l’aspetto positivo, ma anche negativo. Molte donne hanno dovuto chiedere un part time, perché anche lavorando da casa, i bambini erano tutti in didattica a distanza, e quindi era difficile guidarli nei compiti e al tempo stesso lavorare. Tra gli aspetti negativi riscontriamo che c’è stata una conferma dell’incremento del lavoro di cura femminile durante la pandemia con percentuali che aprono un divario profondo tra donne e i loro partner. Il 68% delle donne con un partner ha dichiarato di avere dedicato più tempo ai lavori domestici rispetto al periodo preCOVID, e quindi si aveva anche meno tempo per lavorare e molte donne sono state costrette a lasciare il lavoro proprio perché non riuscivano a conciliare le due cose. Questo ovviamente dipende molto anche dal lavoro che si fa; nell’ambito tecnologico siamo state abbastanza fortunate. Inoltre c’è stato anche – lo dico solo a titolo informativo – un aumento delle violenze di genere del 73% .
Fondamentali, e che danno la misura della recessione del lavoro femminile in Italia, sono i dati sulle posizioni lavorative perse tra il 2019 e lo scorso anno, che complessivamente sono pari a 841 mila su tutto il territorio nazionale nel terzo trimestre del 2020: questo per far capire anche che impatto ha avuto il COVID sul lavoro delle donne.
Alessia: Prima si diceva che le quote rosa piano piano non saranno più una necessità perché grazie al cambiamento di mentalità e grazie alla formazione andremo a riequilibrarci. Ecco, una domanda sulla formazione, se ne discuteva anche fra di noi: quando bisogna cominciare a formare i ragazzi? Alle medie? Alle superiori?
Fiorella: Secondo me, prima si fa meglio è. Noi abbiamo avuto esperienze dirette sia con studenti delle medie, ma anche con studenti delle superiori, e siamo rimaste un po’ stupite, nel senso che sembrano vivere in un altro mondo… ma forse anche noi alla loro età vivevamo in un altro mondo e non eravamo così consapevoli di cosa stesse succedendo intorno a noi! Credo che sia importante iniziare a parlare di questi argomenti già dalle elementari, perché i bambini sono molto più sensibili di noi e quindi queste tematiche loro le comprendono meglio di noi adulti, perché quando si è bambini si ha una consapevolezza molto diversa dell’altra persona che ci è vicina. Quindi, prima cominciamo la formazione con i ragazzi e le ragazze, e meglio è. Oggigiorno c’è più bisogno di competenze sociali che competenze tecniche; l’importante è avere la consapevolezza, è questa che manca, sia la consapevolezza di noi, ma anche delle altre persone, di che cosa significano la diversità e l’inclusione. Perché non va bene se in una scuola, nel 2021, non sanno che cosa significano questi termini! Ho notato che anche i professori non parlano di diversity & inclusion, alcuni non ci credono, mentre per altri è un argomento poco interessante perché a scuola bisogna parlare solo di materie scolastiche. Non metto in dubbio questo, però credo che sia importante anche formare i ragazzi a livello emotivo. Ultimamente sto leggendo un libro che si chiama “L’intelligenza emotiva” di Goleman. In America ci sono delle scuole che stanno sperimentando una didattica totalmente diversa: c’è un approccio istruttivo come l’abbiamo noi, ma parallelamente hanno una didattica che comprende anche l’intelligenza emotiva. I risultati sono sorprendenti, e dobbiamo capire che l’intelligenza emotiva sta prendendo sempre più piede perché porta veramente dei miglioramenti, non solo personali ma anche produttivi.
Matteo: L’argomento del gender gap a livello salariale per me apre un abisso di domande correlate. Abbiamo parlato di formazione, a livello di scuola, con adolescenti e preadolescenti, però abbiamo parlato anche di formazione da fare a persone adulte a livello aziendale. E’ possibile, secondo voi, che questo gap salariale in qualche modo sia utilizzato dalle aziende per compensare i problemi – o magari le diversità – che l’assunzione di una donna può portare a livello aziendale? E, attenzione, qui si introduce anche un argomento delicatissimo che è quello della maternità, magari ne parliamo poi con un’altra domanda che ho pronta, però volevo chiedere: secondo voi, è giusto che le aziende debbano sopportare il costo dell’istruzione e della formazione delle persone, che forse non dovrebbero dipendere dalle aziende, ma avvenire a un livello superiore?
Fiorella: Questa è una bella domanda. Non credo che ci sia una risposta giusta e una sbagliata sinceramente, perché è un argomento talmente difficile! Partiamo dalle basi: dovrebbero essere lo Stato e la scuola a formarti, questo lo credo fermamente, però sappiamo come è la situazione, siamo un po’ indietro sulla didattica. Lo Stato sta cercando di rincorrere qualcosa che è già partito, perché è il mondo tecnologico che sta trainando questi cambiamenti e che sta puntando su queste nuove competenze e tematiche. Hai ragione a chiederti perché devono essere le aziende a sostenere questo peso. Però il mio pensiero qui lo esprimo tranquillamente: io conosco tante aziende che dicono che non trovano donne o programmatrici, però effettivamente ogni tanto mi chiedo che cosa fanno per trovarle. Lo so che non tutte le aziende possono permettersi di fare formazione, perché devi avere dei senior che seguono gli junior che entrano, e quindi è un costo importante, però per le aziende a cui è possibile fare formazione, io credo che non cambi nulla fare formazione a una donna o un fare formazione a un uomo. Se invece l’azienda dice: “Perché devo formare una donna, che poi tra tre anni va in maternità e perdo magari un anno, e devo anche trovare una persona che la sostituisca?”. Credo sia un atteggiamento scorretto, perché la maternità deve essere qualcosa di bello, che le donne devono poter vivere tranquillamente. Anche perché è qualcosa di biologico, noi donne mettiamo al mondo figli e figlie, ma è qualcosa che si fa in due, quindi perché deve essere sempre la donna a essere penalizzata? In questo io spero nelle leggi in cui non ci sia solo la maternità, ma anche la paternità, e che quindi ci sia anche una divisione dei compiti e degli ostacoli. Certo capisco anche il punto di vista di un’azienda per i costi, capisco ma non lo accetto, perché secondo me ci sono tante azioni che si possono fare. Spero che anche lo Stato arrivi in aiuto, però al momento, visto che lo Stato non sta incentivando questo cambiamento, è ora che se ne facciano promotrici le aziende, se possono.
Matteo: Quindi tu comunque sei d’accordo sul dare parte di questo peso da sostenere alle aziende? Spesso ne ho parlato con persone che hanno anche ruoli importanti in alcune aziende e mi hanno detto che l’azienda deve guardare al profitto, al rendimento e non interessa se a portare questo profitto è un uomo o una donna. Però deve mettere in conto il fatto che magari una donna possa assentarsi per un periodo lungo per via della maternità e questo probabilmente – ma questa è una mia supposizione – potrebbe essere un motivo per cui le donne vengono pagate meno. L’azienda compensa in qualche modo con il salario risparmiato il fatto che poi quella persona potrebbe essere assente un periodo? Non lo so, sono supposizioni, però come controbatti all’azienda che dice: “Io devo guadagnare, ho già tante spese tra tasse, contributi, burocrazia e assicurazioni, quindi perché devo accollarmi il rischio di dover spendere in più per una battaglia sociale che io posso pure condividere, ma che non mi riguarda da vicino”?
Fiorella: Io sono d’accordissimo che l’azienda guarda al profitto. Però, ultimamente, ci sono stati dei casi che portano alla luce anche un altro punto di vista che le aziende devono cominciare a prendere in considerazione. Il fatto, cioè, che se non hai team inclusivi, magari alcuni aspetti dei prodotti tu non li guardi nemmeno, non li sviluppi, e quando i prodotti vanno sul mercato, trovi “dei bug enormi”. Questo perché tu non hai pensato a una certa categoria di persone a cui magari è indirizzato quel prodotto, che è stato sviluppato da persone che non erano consapevoli di che cosa stavano sviluppando e che magari era un prodotto per un target particolare.
Quindi sì guardare alla produttività, ma guardare anche alla persona, alla diversità e all’inclusione, che possono portare dei miglioramenti e anche un profitto più alto. Guardare alla donna – parliamo di donne ma qui possiamo parlare di tante altre diversità – come qualcosa di negativo è sbagliato, perché magari quella donna ti porta un miglioramento in azienda talmente grande che non lo immagini nemmeno. Una donna o una persona di colore o una persona che viene da un altro paese può portare un punto di vista diverso. Io sono consapevole che un’azienda per stare in piedi debba guadagnare ed essere produttiva, però magari si parte piano piano e, quando si raggiunge un certo livello di stabilità, si può iniziare a pensare di investire anche sulle persone, e non soltanto sui prodotti.
Ambra: Volevo fare un’integrazione a quello che dice Fiorella, che condivido pienamente.
L’obiettivo finale dell’attività di un’azienda è sì quello di avere il profitto, però anche in economia aziendale alle superiori ti spiegano che l’obiettivo di un’azienda è lo svolgimento di un’attività produttiva e quindi cosa si fa? Sicuramente pensi al prodotto, ma per migliorarlo, tu vai a guardare anche il target. Magari il team di sviluppo è composto da soli uomini. Ma se vado a inserire anche una donna all’interno del gruppo, non è che mi può portare un vantaggio perché si va a focalizzare anche su un aspetto complementare, e quindi mi va a rendere il prodotto ancora di migliore qualità? È vero, come dice Matteo, che se la donna rimane a casa in maternità può creare un problema, però bisognerebbe guardare l’attività di impresa nell’insieme e ricordare che l’obiettivo non è solo quello di realizzare il prodotto che vai a vendere, ma anche soddisfare le esigenze del target.
Matteo: Spesso un’osservazione che viene fatta genericamente sugli ambienti a prevalenza femminile è che siano ambienti dove c’è un’estrema competitività e anche questo quindi va a discapito del benessere sul posto di lavoro. Vi è mai capitato? Secondo voi, è un discorso culturale o un discorso sociale?
Fiorella: Bella domanda, e anche questo credo che sia un po’ uno stereotipo e un pregiudizio. Le donne sì, sono molto più competitive degli uomini, però dipende anche dal contesto in cui sono inserite: se un’azienda punta alla competitività interna, secondo me è già sbagliato. Bisogna puntare alla collaborazione interna tra i team, ma anche tra i membri. Io esperienze negative non le ho avute, sia in ambito lavorativo che esterno, ho trovato sempre donne con cui ho potuto collaborare. Ormai nel nostro team di donne c’è una sana collaborazione, ma devo dire che c’è anche una sana competizione e forse, più importante, c’è una sana comunicazione. Se qualcosa non va bene, se c’è qualche atteggiamento che non ci piace, ce lo diciamo apertamente. Io credo che le donne possano collaborare benissimo, ma che debbano essere anche i contesti ad aiutarle a collaborare e a non scatenare la competizione.
Sabrina: Anche a me lavorativamente parlando non è mai capitato di vivere contesti di competitività femminile. Anzi, tutto il contrario. Però che le donne siano competitive è vero, ma credo che comunque un cambiamento stia già avvenendo in questo senso perché stanno nascendo un sacco di eventi, conferenze, community che aiutano le donne a fare rete tra loro. E non soltanto esclusivamente tra di loro, anche con uomini e con tutte le diversità presenti, che le aiutano a emanciparsi e a emergere.
Alessia: Parliamo sempre di donne che lavorano nel settore IT. Nel 2021, possiamo pensare alla donna che lavora nel settore IT come una persona che vuole avere una carriera brillante, ma anche una famiglia? Come possiamo approcciarci con la nostra azienda per affrontare questo percorso?
Sabrina: Non è che possiamo, dobbiamo assolutamente pensare che questa sia una cosa possibile. Una donna deve avere la possibilità di costruire la sua carriera professionale, ma anche una famiglia. In questo, un ruolo fondamentale ce l’hanno anche lo Stato e le Istituzioni che devono fornire maggiori strumenti perché purtroppo i dati dimostrano come i compiti di cura tutt’oggi siano comunque per la maggior parte in mano alle donne, e che ancora un equilibrio non ci sia. Quindi sicuramente lo Stato dovrebbe intervenire in questo e magari, piano piano, sicuramente ce la faremo. Voglio pensare che sarà sempre più possibile – anche come diceva prima Fiorella – raggiungere un giusto equilibrio tra i compiti anche a livello familiare.
Come azienda, sicuramente molto fanno anche i valori in cui un’azienda crede e le persone che ne fanno parte, ma non possiamo aspettare sempre le Istituzioni, quindi voglio credere che comunque ci siano aziende già oggi pronte a crederci e a incoraggiare le donne a prendere posto in azienda nonostante tutto. Ci devono essere per forza queste persone!
Ambra: Condivido pienamente il pensiero di Sabrina, anche perché non riesco a sopportare lo stereotipo della donna che deve scegliere tra la carriera e la famiglia. E poi oggi esiste la tecnologia, che ci permette di lavorare in condizioni migliori, anche se talvolta magari viene usata anche in modo improprio. Bisogna fare attenzione a questa cosa: magari le aziende potrebbero anche approfittarsi di donne volenterose e che danno il meglio di sé; è sottile il confine tra il voler lavorare per migliorare la propria carriera e da un lato dell’azienda di approfittarsene.
E comunque io sono dell’opinione che per una donna basta portare all’azienda i dati sugli obiettivi raggiunti per dimostrare che è in grado sia di lavorare, sia di gestire una famiglia.
Matteo: Io svesto la toga dell’avvocato del diavolo e volevo solo fare una aggiunta personale. So che non sono io l’intervistato, ma credo che questo tema sia qualcosa che interessa tutti perché la famiglia è uno dei mattoni fondamentali della nostra società e se c’è una donna che fa parte di una famiglia, dall’altra parte c’è un partner, ci sono dei figli, quindi dovrebbe essere interesse di tutti far sì che questa unità fondamentale funzioni bene, perché se questa funziona tutti stanno meglio e tutti lavorano meglio. Quindi se si riuscisse a guardare da un punto di vista un pochino più elevato rispetto al nostro piccolo orticello, forse si riuscirebbe a capire che se la società sta meglio, le aziende ne hanno un vantaggio tutte, a prescindere che quella persona lavori da noi o meno. Però è chiaro che deve essere uno sforzo comune.
Vogliamo ringraziare tantissimo Matteo per aver fatto il bastian contrario, ringraziamo voi ragazze che vi siete messe in gioco e avete deciso di rispondere a tutte quante le nostre domande. Vi aspettiamo come al solito per un’altra chiacchierata perché ci piace tanto confrontarci.
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